STRATAGEMMI

Il canto nomade del prigioniero | Il Contrappasso – La trilogia della porta

19/5/24
di:
Alessandro Di Giulio

«Almeno tu che puoi fuggi via canto nomade. Questa cella è piena della mia disperazione. Tu che puoi non farti prendere». Ecco i versi grondanti della rabbia di un dissidente privato della libertà, appartenenti alla produzione di Francesco Di Giacomo, paroliere de il Banco del mutuo soccorso, in cui descrive i sentimenti di chi si ritrova imprigionato per ciò in cui crede. La cupa suite lancia un grido di libertà che il protagonista dedica alla sua amata, Marta, rimasta illesa rispetto al duro giudizio di una società che incasella gli individui. È sempre il nome “Marta” a tornare, più e più volte, ne Il Contrappasso – La Trilogia della porta, regia e drammaturgia di Rita Di Leo. Gli incastri scenici e testuali mostrano l’altra faccia della stessa medaglia: una ragazza imprigionata dalla severità del padre finanziere soltanto per aver inseguito un ideale, manifestando per la libertà di Alfredo Cospito, rinchiuso nel regime del 41 bis.

Il tema del rimprovero e del conflitto generazionale costituisce una delle linee narrative principali della messinscena, sviluppato elegantemente attraverso l’alternarsi dei monologhi di tre genitori che si appellano ai loro rispettivi figli. Questo meccanismo risulta particolarmente insistito soprattutto nei rimproveri che il padre finanziere (ruolo difficile e duro, interpretato dinamicamente da Simone Baroni) rivolge alla figlia: la ragazza, manifestando insieme agli anarchici per la libertà di Alfredo Cospito, ha messo in ridicolo il ruolo e la reputazione lavorativa del padre.

Il ricatto delle grandi possibilità offerte, del «non aver mai fatto mancare nulla», il dialogo fintamente pacifico, muovono una forte critica alle modalità educative dei genitori che, ostentando un finto perbenismo, nascondono invece una costante ostruzione di idee stigmatizzate dal contesto sociale. Emerge un parallelismo tra questo sistema educativo contemporaneo e quello detentivo dello stato, attuato attraverso il mezzo estremo del carcere duro. Anche gli altri due monologhi sono sempre rivolti a figli ritenuti problematici, caratterizzati da una comune radice dei loro dissidi interiori, identificabile con la figura genitoriale e il sistema valoriale che essa ha voluto impartire loro.

Le modalità di controllo esercitate dagli adulti sui giovani (applicazioni per localizzarli, metterli in punizione, negare loro ogni rapporto con l’esterno nel periodo di “detenzione”) rappresentano la metafora del carcere duro, che priva di ogni umanità il prigioniero. Non a caso, infatti, i tre genitori lavorano in contesti in cui è possibile esercitare forme di repressione di stato e trasferiscono nel rapporto con la prole il loro modus operandi professionale.

La scelta drammaturgica di utilizzare diverse lingue dialettali – il parmigiano per il finanziere, il siciliano per il secondino e l’italiano che man mano muta in romano per la giudice – permette di comprendere come queste problematiche siano diffuse in tutto lo Stivale. In queste tre figure divampa la pioggia delle incertezze e dell’inquietudine che la società contemporanea infonde negli individui. Questi concetti si manifestano forti come tuoni che riecheggiano nella sala con le parole degli attori.

L’Autocommiserazione che travolge la giudice (incarnata dalla sofferente e drammatica interpretazione di Anna Dell’Olio) la porta a ripercorrere gli oggetti identificativi del ruolo del procuratore, disumanizzato dal suo potere, dal suo osservare il resto del mondo con un martelletto in mano, dal poter condannare esseri umani al regime di 41 bis, finendo per sentirsi lei stessa detenuta per il fatto di dover indossare una toga.

L’odissea individuale del secondino (interpretato efficacemente da Antonino Cicero Santalena, capace di trasmettere un ampio ventaglio di sensazioni discordanti) incarna una delle colonne portanti dello spettacolo: dopo aver speso terribili parole sui detenuti, anche trattando manifestamente il tema del contrappasso tra colpa compiuta e pena da dover ricevere, incarna il vero dissidio celato dietro il lavoro ideato da Di Leo. Questo stesso contrasto emerge anche attraverso il linguaggio sonoro. È stato infatti inserito un frammento musicale tratto da Il Galeone, noto canto anarchico che condanna la brutalità delle carceri, nato per gridare con forza un’istanza di libertà e, allo stesso tempo, infondendo nella platea l’inevitabile sensazione di disgusto nei confronti delle ingiustizie repressive dello stato.

La distribuzione spaziale è esplicativa dei ruoli ricoperti dai personaggi all’interno della società: le due guardie, infatti, si muovono in un’area ristretta e separata, racchiuse entrambe dal campo d’azione riservato alla giudice, più ampio e dominante rispetto agli altri due, ma comunque vincolato all’interno di un confine, tracciato dall’inconsistente e subdola figura del sistema, che rinchiude persino gli stessi aguzzini.

Il Contrappasso racconta il regime del carcere duro come vendicativo (ad oggi davvero ben lontano dai noti insegnamenti di Cesare Beccaria) e quindi non propedeutico all’applicazione della giustizia di stato. Resta, nello sguardo dello spettatore, la deumanizzazione dei carcerati di fronte agli occhi insensibili dei personaggi, come del resto accade nei pensieri e nelle parole di molta parte dell’opinione comune, come canta Fabrizio De André: «Tante le grinte, le ghigne, i musi. Vagli a spiegare che è primavera. E poi lo sanno, ma preferiscono. Vederla togliere a chi va in galera».

Alessandro Di Giulio
in copertina: foto di Marcella Foccardi
IL CONTRAPPASSO
la trilogia della porta
regia e drammaturgia Rita Di Leo
con Simone Baroni, Antonino Cicero Santalena e Anna Dall’Olio
assistente alla regia Antonino Cicero Santalena
progetto sonoro Lorenzo Donadei
voce fuori campo Gaia Amico
con il sostegno di 9c Teatro APS e Fondazione Federico Cornoni ETS
si ringrazia Angela Demattè per la supervisione drammaturgica
progetto uscente da Drammaturgie: Alta formazione di scrittura teatrale di ERT Emilia-Romagna Teatro Fondazione
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Sguardi da Canile Drammatico